INTRECCIO
Maggio 16, 2024EVIDENTE INSONNE
Settembre 10, 2024IAILAT
di Iginio De Luca
a cura di Sabrina Vedovotto
2 giugno 2024
dalle 10.00 alle 21.00
COSMO - Piazza di Sant’Apollonia 13 (Trastevere) – Roma
La violazione del diritto avvenuta in
un punto della terra è avvertita in tutti
i punti.
Immanuel Kant
Concentrarsi su ciò che si sente, per riconoscerlo subito, nonostante tutto. Sei lettere che al principio ci spiazzano, che facciamo fatica a pronunciare, ma che ci riportano a ciò che stiamo ascoltando. È l’Inno d’Italia, nello specifico l’esecuzione diretta da Daniel Harding per il Concerto di Capodanno 2010 a La Fenice di Venezia.
È un inno diverso, stravolto, potente, tragico, lento e oscuro. Si porta appresso un peso che è quello della coscienza, della memoria, e di ciò che stiamo vivendo. Sembra quasi una marcia funebre, c’è una sottesa forma di pathos che richiede attenzione. Sono note musicali che si dilatano e dilatano il tempo di ascolto, che si allontana dalla solita marcetta divertente, per entrare nelle crepe; s’insinua lentamente per rimanere.
Una sublimazione di un momento fatto di pochi minuti, in cui caliamo nelle viscere, figurativamente e realmente. Il luogo per l’esecuzione di questo lavoro non è casuale, la discesa alla cripta è una metafora della discesa che facciamo noi spettatori. Giungiamo nel punto estremo di un luogo, e ciò che ascoltiamo sembra quasi essere il pianto di queste viscere, una disperazione sussunta ma inequivocabile. Una dimensione paradossale, perché più ci si avvicina al ventre, più ci si sente immersi in una palude fangosa che sembra volerci trattenere.
L’impotenza, scriveva Aristotele, è una privazione contraria alla potenza. Immersi in queste note cupe, dolorose, ci si sente impotenti, inetti di fronte ad un mondo che ci appare lontano, fuori luogo, e che riconosciamo in quest’abisso fatto di note. Ma l’opera di Iginio De Luca riesce a creare un legame prepotente con chi ascolta. Come se esistesse una forza recondita, l’attrazione è tale da indurre l’ascoltatore/spettatore a rimanere, impietrito, o anche soffocato dalla cupezza delle note; come un elastico siamo allontanati e ci riavviciniamo, di nuovo siamo distanti e poi vicini. La potenza di tutto è tale da impedirci un allontanamento definitivo. Perché sono note che riconosciamo, e grazie a questa familiarità ci sentiamo protetti, ma la dimensione dilatata e di sofferenza ci spinge in un altrove metaforico, fatto di pregnante dolore.
L’ascolto è straziante, fisicamente. Come fossero scudisciate, si sentono vibrare dei suoni che ci toccano fisicamente. Eppure rimaniamo lì, consci di un tormento che ci attraversa e che ci dilanierà.
Sabrina Vedovotto